domenica 18 ottobre 2009

Un solco da penne nel mare

Vérité en deçà des Pyrénées, mensonges au delà diceva il filosofo transalpino Pascal. Forse perchè la frontiera è sempre stata l’elemento culturale fondamentale su cui vengono edificate le società umane da secoli, ma questa frontiera non è soltanto fisica oppure geografica, la frontiera è un elemento proprio mentale che struttura inevitabilmente l’intelligibilità del mondo reale per l’anima dell’uomo. Si consideri l’eroe di Buzzati in attesa di gloria nel deserto dei Tartari, la cui sperenza è annientata dall’attesa di un pericolo che non viene, ma sopratutto della dissoluzione del mondo esterno in questa immensità senza confini ove la realtà si svanisce poco a poco al punto che il dubbio sull’arrivo dei barbari si trasforma in un dubbio sul mondo abandonato dagli uomini e dalla cultura intorno, proprio quello che viene chiamato un deserto. Il concetto di frontiera era fondamentale per gli antichi che individuavano la città politica in quanto territorio sacralizzato, purgato dalla macchia innominabile della morte, la frontiera della città non è soltanto il limite politico, veniva considerato dagli antichi anche come frontiera trà i vivi e i morti. Infatti non si poteva assaltare il tracciato dell’aratro senza commettere una colpa che andava per forza punita di morte, esclusione del mondo dei vivi, caduta nell’Averno, assaltando un’altra frontiera, quella dello Stige.

Quando si vive su un'isola il problema posto dalla frontiera non esiste, perchè la domanda di definizione della frontiera fisica è risolta dalla natura tramite l’elemento marino. Il regno di Nettuno rinchiude il territorio dei mortali. Però sarebbe sbagliato pensare che la frontiera naturale confermi la frontiera mentale. Il fatto «isolano» può anche aggravare questo problema dell’auto situazione nel mondo concepito in quanto rappresentazione spirituale e non come realtà sensitiva.

Cresciuto in Corsica, avevo integrato la classe preparatoria a Bastia ove sono rimasto per due anni. Abitavo nell’antica cittadella genovesa ove affiancata al vecchio palazzo deserto dei governatori della Serenissima si ergeva la secolare bastiglia del governatore Leonello Lomellini che ha dato il suo nome alla città. Dal promontorio della cittadella, la mattina, mentre attraversavo la piazza del torrione, potevo vedere affacciarsi l’Elba, Monte Cristo, Capraja e pure la costa toscana di Populonia. Dal mio paese del Sud della Corsica, insediato sui i fianchi dei monti di Cagna, potevo guardare la Gallura sarda ogni mattina prima di scendere al liceo. Certi giorni si vedevano anche le macchine costeggiare l’orlo dell’isola vicina. Cosi, ogni mattina, sia a Bastia che da me, stavo sempre in piedi qualche minuto, quaderni in mano, con quest’idea che mi turbava. Quest’idea secondo cui mi affacciavo a una frontiera che non era fatta soltanto d’acqua marina, ma anche di versi, e di prosa. Dalla mia parte si andava al liceo a studiare a Hugo o Baudelaire, si studiava la vittoria di Bouvines oppure la presa della Bastiglia (un’altra di più) sapendo che Bouvines, Azincourt o Rocroi erano luoghi a centinaie di chilometri dal mio posto mentre non si sentiva parlare in classe della Meloria, di Montaperti o di San Romano, posti più vicini di me di Nizza stessa, a cui avevano per forza partecipato mercenari corsi, noti in Terraferma per il valore marziale (le guardie del Papa erano corse), si ricordi la famosa amicizia trà il condottiere isolano Sampiero Corso e il Mediceo Giovanni delle bande nere. Poi indovinavo da lontano quegli autobus seguendo la costa di Santa Teresa di Gallura, colle stesse roccie, la stessa macchia, gli stessi colori, lo stesso mare. E in questo autobus ragazzi della stessa età, ma con nelle loro cartelle esemplari della Divina commedia, dell’Orlando forioso, dei Quaderni di Serafino Gubbio, operatore, mentre io tenevo sotto i miei occhi Les Misérables oppure les Fleurs du mal. A venti chilometri dal luogo in cui mi turbavo in modo mattunino la mente, potevo quasi sentire sussurrare un miserere di me gridato di fronte a un Virgilio fioco mentre approntavo la mia bocca a proferare uno spleen andando in visibilio davanti a questa chevelure moutonnant jusqu’à l’encolure. A Bastia, posto sulle mura a stapiombo sul mare, guardavo a Capraja che sembrava ancora pronta di comune accordo colla Gorgona a chiudere la foce dell’Arno per annegare i cittadini di Pisa da dove sembravano sempre arrivare i sospiri scappati dalla torre della Mangia. Stavo a guardare questa costa toscana calpestata da Dante, da Boccaccio, da Petrarca, da Latini, da Machiavelli mentre intorno a me non vedevo i vecchi fantasmi di Ronsard, di Beaumarchais oppure di Lautréamont. Nelle mura del palazzo Carovana declamavano gli allievi della Normale in lingua greca o in latino a una distanza che non superava quella che ci separa di Nizza, la città più vicina del continente. Nel mio liceo si studiava anche greco e latino, ma per dare il concorso della Normale di Parigi, a centinaie di chilometri, mentre si studiavano autori di cui le penne avevano scritto in luogo dieci volte più lontani e diversi di quelli vicini in cui scrivevano le tre corone. I testi che noi studiavamo a Bastia erano imparati a memoria dagli eccelenti studenti dei più prestigiosi licei parigini mentre là in Corsica io, lontano dalla foschia parigina, guardavo nello stupore del crepusculo svanire la costa toscana e ascoltavo morire le voci lusinghiere degli allievi dall’altro lato di un mare tirrenio che rimaneva per mè la frontiera più strana che avevo mai visto.


JEAN DOMINIQUE LUCCHINI


1 commento:

  1. Un testo molto bello Jean Do...più bello di quando ce l'hai spiegato...hai fatto qualche erroretto cerca di correggerlo...

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