martedì 19 gennaio 2010

Rosarno: la rabbia e la verità di Massimiliano Perna

Rosarno: la rabbia e la verità

di Massimiliano Perna

Quest’Italia bacchettona e razzista ha scoperto finalmente, come svegliata da un sonno profondo, che i migranti sono uomini, molto più uomini di tanti italiani vigliacchi e servili. Lo hanno scoperto all’improvviso, solo perché la tv ha deciso di dare spazio alla notizia della ribellione dei lavoratori immigrati di Rosarno. Una ribellione non nuova. La terza ribellione in Italia dopo quella di Castel Volturno, in Campania, nel settembre del 2008, e quella successiva, sempre a Rosarno, nel dicembre dello stesso anno. Se quello campano è stato il caso più eclatante, seguito al barbaro assassinio di sei onesti lavoratori africani da parte della camorra, le due rivolte di Rosarno sono la risposta fiera e coraggiosa agli atti di violenza subiti dagli immigrati, rei di lavorare e di essere visibili, di chiedere i loro diritti. Conosco molti ragazzi africani che vivono e lavorano nelle campagne rosarnesi, alcuni hanno potuto affittare una casa, altri dormono all’addiaccio nei campi o nei casolari o dentro il famoso capannone abbandonato. Ho parlato con alcuni di loro, in questi anni e mesi, mi hanno descritto l’inferno in cui vivono, l’ambiente ostile, violento, irrimediabilmente marchiato dalla presenza capillare della ‘ndrangheta. Ho ascoltato le stesse parole che è possibile leggere nel bel libro curato dal mio amico Antonello Mangano (Gli africani salveranno Rosarno e probabilmente anche l’Italia). Non mi sono mai stupito, perché ormai so bene a quale inferno vanno incontro questi ragazzi d’Africa quando arrivano in Italia. E so bene, anche se fa male sentirglielo dire, che per molti di loro anche questo schifo è sempre meglio che la morte certa o l’assenza di opportunità a cui erano condannati nelle loro terre di origine. Molti di loro sono rifugiati politici, gente che aveva solo una scelta: scappare o morire. E l’Italia, gli italiani, quelli con l’immagine di “brava gente” esportata in ogni dove, sembravano l’appiglio migliore, l’approdo in cui trovare diritti, solidarietà, comprensione, se non altro per il recente passato di emigrazione che ancora pulsa nelle vene degli italiani.

O almeno dovrebbe, visto che la realtà ci racconta di un passato di cui non si ha memoria. Questi ragazzi vengono qui e ricominciano tutto, lontani da casa, affetti, dal profumo di una terra incantevole che sono stati costretti ad accantonare. Si rimboccano le maniche e si mettono al lavoro, mentre i nostri giovani tengono le chiappe bene al caldo e frignano per un telefonino nuovo, per un amore incrinato o per una festa non riuscita. Non è una predica, una paternale, ma di fronte a questi ragazzi africani dovremmo provare vergogna. Vergogna per il silenzio a cui li costringiamo, per l’assenza di solidarietà, per l’incapacità di percepire la grandezza, la ricchezza, il privilegio di incontrare storie di vita vera, culture, linguaggi, sensibilità diverse, nuove, incantevoli. A Rosarno, e non solo lì, questa gente lavora 14 ore al giorno, duramente, senza pause e senza diritti; poi accade che chiedono la cosa più semplice e normale in un mondo civile: la paga, una paga misera ma pur sempre il prezzo del proprio lavoro, soldi utili per vivere e per far vivere i propri familiari in Africa. Un immigrato non può restare senza soldi, non può aspettare, accettare ritardi, perché per lui è una continua lotta per la sopravvivenza. A Rosarno non ci sono ritardi, c’è la ‘ndrangheta, ci sono i “padroni” delle campagne che usano il caporalato per le “assunzioni” e poi spesso, a fine lavoro, al momento di pagare, decidono di non pagare, si rifiutano. E se il lavoratore immigrato protesta ecco che spuntano le armi, le pistole ed i fucili impugnati dagli scagnozzi del capo e dal capo stesso, che circondano il lavoratore e lo “invitano” ad andarsene. Se qualcuno non obbedisce allora sparano. Oppure ci sarà qualche balordo che andrà a sparargli in serata, magari mentre il ragazzo immigrato si trova in strada e cammina verso il campo in cui dorme. A Rosarno è roba quotidiana. Molti miei amici migranti me lo hanno raccontato più volte, continuano a raccontarmelo. Stamattina, uno di loro, mi ha spiegato cosa accade, mi ha raccontato dell’atmosfera mafiosa che opprime Rosarno. Mi ha detto che l’anno scorso anche lui ha lavorato per una settimana e non è stato pagato. E quando ha protestato sono spuntate le armi.

È stato allora che ha capito una cosa che nelle zone di mafia tanti di noi sanno e in troppi accettano: “Se sei intelligente – mi spiega – e capisci la situazione, ingoi il rospo, dici che non c’è nessun problema e te ne vai, se non sei intelligente ti prenderai le pallottole addosso. Io capì la situazione e me ne andai. Adesso andrò via, qui a Rosarno non voglio stare più. Troppo brutto questo posto”. Non sempre però si decide di star zitti, di subire. C’è chi ha capito un’altra cosa: è intelligente in quel momento risparmiare la pelle, ma è ancor più intelligente, subito dopo, organizzarsi e scendere in piazza, sfidare tutti insieme l’arroganza vigliacca di questi criminali senza palle, di questi vermi mafiosi, maleodoranti e rozzi, forti con le armi in mano ma palesemente codardi quando si trovano a mani nude di fronte a chiunque, a maggior ragione di fronte a un popolo che si incazza e li sfida apertamente, nelle piazze, nelle strade, in quel territorio che i boss pensano sia loro, o almeno lo fanno credere ad una cittadinanza che accetta tutto e si chiude in casa con i calzoni sporchi di urina, marchiati da una paura illogica e incivile. I migranti, invece, non hanno paura. Tutti insieme sanno di essere più forti, possono dimostrare che il territorio è di chi lo sa difendere, di chi sa occuparlo senza timori, invadendo le vie, guardando in faccia quei mezzi uomini che pensano di comandare il mondo. Hanno avuto il coraggio di sfidare la ‘ndrangheta, da soli, senza perdere tempo con i discorsi, con le tecniche organizzative. Un moto spontaneo, rabbioso, che ha sfogato tutta la propria rabbia per strada, che ha gridato un basta che parte da lontano, dall’omicidio del rifugiato politico sudafricano Jerry Masslo, ucciso a colpi di pistola da quattro balordi nel 1989 a Villa Literno, in Campania, passando per i morti di Castel Volturno, fino a Rosarno. Un urlo di protesta che porta con sé la voce di tutti quei migranti uccisi dall’indifferenza, dalla violenza, dal lavoro senza sicurezza, nelle campagne, nei cantieri edili, nelle baracche di fortuna, da nord a sud.

Una rabbia giusta, la rabbia di esseri umani veri, che hanno vissuto un’Odissea, che hanno affrontato mille ostacoli, attraversato l’inferno, si sono aggrappati alla vita, e che ora non hanno intenzione di svenderla o sottometterla al ridicolo potere mafioso. I migranti non hanno paura delle mafie, non ne avranno mai, non possono averne. E forse saranno davvero loro, come dice il mio amico Antonello, a salvare l’Italia, a svegliare gli italiani, a far capire loro che non si può vivere nel torpore di un silenzio vigliacco, di una rassegnazione insensata, di una società che accetta tutto purché non si tocchi la propria sfera individuale e quel piccolo mondo, ricco di false certezze e di valori artificiali, che ognuno di noi si costruisce per poi rinchiudersi dentro. Quella di Rosarno è la rivolta fisica di un’Italia che non accetta le leggi disumane di un governo xenofobo, chinatosi al volere rozzo e putrido della Lega, di quel manipolo di beoni padani che vogliono assassinare la democrazia e il diritto, violentando l’umanità e la solidarietà, il rispetto per la vita umana. Il ministro dell’Interno, Roberto “Eichmann” Maroni, ha commentato la situazione di Rosarno con la sua consueta arroganza, facendo ricadere la responsabilità non sulla ‘ndrangheta, bensì sui “clandestini”, colpevoli del degrado e dell’aumento della criminalità. La stessa logica becera di quegli schifosi maschilisti che, davanti allo stupro di una donna, dicono che è la vittima che se l’è andata a cercare. Ma cosa aspettarsi da un uomo di infimo valore e spessore umano, un ex comunista che oggi si muove e opera alla stessa stregua di un gerarca nazista, drogandosi con il suo stesso potere? Parla di troppa tolleranza? È vero, troppa tolleranza c’è stata nei confronti di una classe politica inetta, violenta, razzista. È anche su uomini come Maroni, che gli italiani hanno messo su una bella poltrona, gli immigrati cercano di farci aprire gli occhi, di farci comprendere quanto siamo lontani, nei fatti, da quella parola che in maniera indebita appiccichiamo con troppa superficialità alla nostra storia e alla nostra società “occidentale”: quella parola è “civiltà”.

I telegiornali, compreso il Tg3, parlano dei “poveri cittadini” di Rosarno, sempre buoni con i migranti, increduli davanti alla rabbia dei manifestanti, che hanno divelto cassonetti e distrutto auto e vetrine. Adesso chiedono al Commissario del governo, che guida il Comune calabrese, di cacciare via dalla città tutti gli immigrati. E dobbiamo pure definirli buoni, questi rosarnesi, perché in cuor loro la “soluzione” desiderata sarebbe di certo più truculenta. Parlano i rosarnesi, protestano, si lamentano, c’è chi addirittura ha sparato dal balcone per allontanare i manifestanti, dicono che non capiscono la reazione dei migranti in una città che li ha sempre aiutati e accolti…Sono quegli stessi cittadini che abbassano la schiena davanti alla ‘ndrangheta, che tacciono, omertosi, che amano vedere le proprie campagne ricche di schiavi a basso costo e che poi si incazzano quando li vedono camminare per strada, perché danno fastidio, perché non è accettabile che questi nuovi schiavi mostrino ai rosarnesi “civili” il fetore marcio della propria coscienza. Questa gente qui, che i media appoggiano e la politica si coccola, è il problema di questo Paese, è un problema che bisognerebbe estirpare, cacciando via loro dai posti di lavoro che occupano grazie alla mano amica di qualche boss o di qualche politico colluso. Da loro mi auguro che questa Italia si salvi e mi auguro che i migranti possano aiutarci ridandoci il senso di quello che è il mondo, sputando fuori il dolore e la sofferenza, spezzando quelle catene schiaviste, sanguinose e laceranti, che la società italiana ha attaccato ai loro polsi, alle caviglie e al futuro. Per questo, esprimo totale solidarietà ai migranti di Rosarno e a quelli di tutta Italia, che con coraggio civile stanno cercando di salvare la nostra democrazia.

Chi usa gli ultimi della terra... di Gad Lerner

Chi usa gli ultimi della terra... di Gad Lerner

Viviamo a Rosarno una pagina oscura della storia italiana. Le ronde criminali scatenate nell´assalto agli africani, le sprangate in testa e le fucilate alle gambe degli immigrati, rappresentano una vergogna di fronte a cui possiamo solo sperare in un moto collettivo di ripulsa morale.

Di quale tolleranza, "troppa tolleranza", parla il ministro Maroni? Ignora forse che da trent´anni l´agricoltura del Mezzogiorno d´Italia si regge economicamente sull´impiego di manodopera maschile immigrata, sospinta al nomadismo stagionale fra Puglia, Campania, Sicilia e Calabria, con paghe di sussistenza alla giornata, ricoveri di fortuna in edifici fatiscenti, criteri d´assunzione malavitosi, senza la minima tutela sanitaria e sindacale? Ora non li vogliono più, s´illudono di espellerli come un corpo estraneo dopo che li avevano convocati alla raccolta degli agrumi. Ma è dal 1980 che le colture specializzate meridionali non possono fare a meno delle migliaia di ragazzi africani trattati né più né meno come bestiame. E al tramonto, se la mandria non fa ritorno disciplinato nei recinti abusivi delle aree industriali dismesse, non trova certo istituzioni disponibili a riconoscerne l´umanità. Gli italiani con cui entrano in contatto questi lavoratori senza diritti sono solo di due tipi: i caporali spesso affiliati alla criminalità organizzata; e i volontari di Libera, della Caritas e di Medici senza frontiere. Le forze dell´ordine si sono limitate finora a un blando presidio territoriale per evitare frizioni pericolose con la popolazione locale. Ma l´importante era che il ciclo produttivo non si interrompesse: la mattina dopo il reclutamento ai bordi della strada non subiva intralci.

Chi ha tollerato che cosa, ministro Maroni?

Rosarno era teatro da anni di una conflittualità quotidiana, pestaggi isolati, sfide tra giovanissimi divisi dal colore della pelle ma accomunati da una miseria culturale che li induce a viversi come nemici. Dopo i colpi di fucile che hanno ferito due immigrati, giovedì la furia degli immigrati ha colpito indiscriminatamente la popolazione calabrese. Ieri, per rappresaglia, è scattata la "caccia al nero": disordini razziali che evocano scenari di un´America d´altri tempi. Di nuovo sparatorie a casaccio per terrorizzare i miserabili che hanno osato ribellarsi, insanguinando la Piana di Gioia Tauro dove governano ben altre autorità che non lo Stato democratico.

La riconversione legale dell´agricoltura del Sud implicherebbe, accanto agli investimenti economici, un´opera di civilizzazione che mal si concilia con l´offensiva propagandistica imperniata sulla criminalizzazione del clandestino. Non solo i mass media ma anche i portavoce della destra governativa hanno eccitato, legittimato sentimenti d´ostilità da cui oggi scaturiscono comportamenti barbari, indegni di un paese civile.

Se a Castelvolturno, nel settembre 2008, fu la camorra a sterminare sei braccianti africani, a Rosarno assistiamo a un degrado ulteriore: settori di cittadinanza coinvolti in un´azione di repulisti inconsulta. La chiamata alle armi contro i dannati della terra che certo non potevano garantire – con la sola forza disciplinata delle loro braccia - il benessere di un´area rimasta povera.

Vi sono probabilmente motivazioni sotterranee, indicibili, alla base di questo conflitto. Non tutti i 25 euro di paga giornaliera finiscono nelle tasche dei braccianti illegali. Pare che debbano versare due euro e mezzo agli autisti dei pulmini che li trasportano nelle piantagioni. Si vocifera addirittura di una odiosa "tassa di soggiorno" di 5 euro pretesa dalla ´ndrangheta. Di certo non sono associazioni legali quelle che pattuiscono le prestazioni di lavoro. Ma soprattutto è chiaro che una relazione trasparente con la manodopera immigrata viene ostacolata, resa pressoché impossibile dalla legislazione vigente.

Altro che pericolo islamico: qui la religione non c´entra un bel nulla. L´Italia dell´economia illegale, non solo al Sud, lucra sulla farraginosità normativa che sottomette il lavoratore immigrato a procedure arbitrarie sia in materia contrattuale, sia nel rilascio del permesso di soggiorno. Quando Angelo Panebianco, sul "Corriere della Sera", asserisce che affrontare il tema della cittadinanza significherebbe "partire dalla coda anziché dalla testa", ignora che restiamo l´unico paese europeo in cui le procedure di regolarizzazione e di naturalizzazione non contemplano alcuna certezza di tempi e requisiti. Assecondando, di fatto, un´informalità di relazioni per cui ai doveri non corrispondono mai i diritti.

Sulla scia di un´analoga iniziativa francese, circola fra gli stranieri residenti in Italia l´idea di dare vita a marzo a una iniziativa forse velleitaria ma dal forte significato simbolico: "24h senza di noi". Che cosa succederebbe se per un giorno tutti gli immigrati si astenessero dal lavoro? Quanto reggerebbe il nostro sistema di vita senza il loro apporto? Farebbero bene, i sindacati, a prendere in seria considerazione questa iniziativa, contribuendo con la loro forza organizzativa al moto spontaneo. Ma prima ancora è l´intero arco delle forze politiche, culturali e religiose che rifiutano la contrapposizione incivile fra italiani e stranieri a doversi mobilitare: l´inciviltà dei pogrom è contagiosa.

Identità e compassione

Identità e compassione

Dell'impossibilità di un orgoglio nazionale

Alcuni giorni fa mentre ordinavo un caffè in un bar di Milano sono rimasto _______ da un’immagine di per sè innocua, o perlomeno che io ____________ tale. Dietro al bancone stava in bella evidenza una grande bandiera italiana. Nessun altro simbolo o segno di commento, solo il tricolore bianco, rosso e verde. Osservandola per un minuto con la tazzina a mezz’aria mi sono reso conto di provare una ___________ sensazione di disagio. Quella bandiera mi _________ una inutile ostentazione nazionalista. Guardai il barista, cercando nella sua fisiognomica e nel suo abbigliamento una giustificazione parafascista a tanto osare. Invece niente, era un __________ professionista milanese.

Uscito dal bar la _____________ di disagio mi è rimasta addosso.

Perché il tricolore mi fa questo effetto? Se mi fosse __________ la stessa cosa in Francia o Inghilterra non mi sarei nemmeno stupito. L’Union Jack è frequente nei pub inglesi e i francesi non hanno alcun pudore a ____________ la loro bandiera. In Italia invece questa cosa mi sembra di cattivo gusto o comunque inopportuna. E se devo ____________ agli anni trascorsi nell’adolescenza e durante la fin troppo protratta giovinezza, ricordo sempre la stessa insofferenza ai simboli nazionali. Insofferenza che, sia chiaro, condivido con la stragrande maggioranza della mia generazione. Certo, io provengo da una famiglia comunista e non sono così __________ di storia per non capire quanto l’eredità del Ventennio fascista e la tragica vergogna della seconda guerra mondiale abbiano minato profondamente l’orgoglio nazionale. Ma ciò nonostante, queste cause non mi sembrano __________ a giustificare un atteggiamento così negativo e reiterato. La questione non è cosi semplice e soprattutto non si riduce a un fatto estetico o a un mio problema soggettivo.

Parliamo della mia generazione quindi, i trentacinque-quarantenni. Parliamo del nostro percorso di ________________ culturale, per cercare di __________ quali siano le cause di questa disaffezione nei confronti dell’idea stessa di patriottismo. Se devo tornare indietro a quando ho memoria, ricordo che negli anni Settanta il tricolore era quasi bandito. A parte i militanti neo fascisti che lo sventolavano insieme ai loro simboli, __________ lo mostrava. Nemmeno a scuola era frequente vederlo appeso su di un muro, come se anche nelle aule ci si dovesse vergognare della nostra appartenenza nazionale. Ma di cosa dovevano essere ___________ gli italiani? Di quale virtù esclusiva o coesione memorabile?

Conclusa come sappiamo la seconda guerra mondiale, la mancanza di una mitopoiesi della vittoria – di norma cemento dell’identità nazionale - non poteva essere ____________ dalla pur gloriosa pagina della Resistenza, perché non da tutti condivisa e minata nelle fondamenta dallo sbandierato internazionalismo del Partito Comunista Italiano. La nuova repubblica _________ nel dopoguerra nasceva monca, senza fare i conti con il proprio recente _________. Questa lacerazione è continuata per decenni e noi l’abbiamo ereditata. Come dicevo, la mia infanzia __________ negli anni Settanta, in un paese dove molti italiani erano _________, a ragione, che lo stato mettesse le bombe nelle piazze e sopra i treni. In un paese dove esisteva una realtà quotidiana tangibile e più o meno accettabile, ma anche un mondo __________ di interessi e trame inconfessabili. Trame antinazionali che nascevano per opporsi alla volontà popolare. Sono __________ in un paese dove nessuno mostrava mai attaccamento alla patria, perché la patria quando esisteva era vista come aliena e nemica. Sono cresciuto in un paese dove la grande massa dei ceti produttivi moderati votava la Democrazia Cristiana, partito adesso paradossalmente rimpianto ma allora ricettacolo di corruzione e clientelarismo, costretto dalla ___________ politica internazionale a rimanere sempre al governo, ___________ mai lasciare spazio ad una alternanza che facesse ________ negli ambiti di potere troppo sedimentati. L’altra metà del paese invece votava PCI, un partito storicamente miope, anacronistico, compassato ma anche serio, efficiente, fatto di gente per bene che credeva in quello che faceva. Ma un partito fondamentalmente antinazionale, sebbene i suoi dirigenti si sforzassero di _________ il contrario. Alle feste dell’Unità si vendevano i gagliardetti dell’Unione Sovietica o i simboli dell’iconografia comunista, non il tricolore o le immagini dei martiri del Risorgimento. Negli anni Settanta ___________ era orgoglioso di sentirsi italiano.

Quando finalmente ________ il decennio, gli anni Ottanta parlano già un altro linguaggio. Io sono adolescente e vivo nella metropoli invasa dall’eroina. Ma fuori dai quartieri bisogna ______ i soldi e farli alla svelta, in una realtà sberluccicante che dimostrerà presto la propria inconsistenza. La macchina pubblicitaria macina miliardi mentre i mezzi di comunicazione di massa proiettano la gente comune in altri luoghi, reali o immaginifici, ma comunque a portata ________. Gli italiani guardano fuori dai confini nazionali: del tricolore e della patria continua a non fregare niente a nessuno. Solo durante le grandi vittorie sportive lo spirito d’appartenenza si ridesta – e penso ai mondiali del 1982 - ma è un fatto di costume, un rito collettivo che si spegne in una _______ di festeggiamenti. Intanto il nuovo decennio è paradossale e rivoluzionario, certo più radicale del _______ con tutta la sua violenza e la sua mal risposta ideologia. Cambia il mondo a una velocità ___________ e solo chi non vuol vedere rimane ________ alla vecchie formule, ai vecchi linguaggi e ai vecchi schieramenti. Molti giovani __________ di overdose. Il decennio si ________ con il muro di Berlino che crolla fragorosamente davanti agli spettatori di tutto il mondo, impegnati a guardare uno spettacolo dopo tanti altri. La post modernità si mostra con la faccia garrula della mancanza di coscienza, dell’indistinto che non ammette selezione etica.

Che succede quindi agli italiani?

La fine della ________ fredda avrebbe potuto concorrere a riformare un forte sentimento di appartenenza nazionale. Era prevedibile e forse anche auspicabile ma così non è stato. Trascorsi un paio di anni, Tangentopoli arriva come una bufera, gettando fango sulla classe politica, sulle istituzioni e sull’idea stessa di stato di _________. Io ho ventitre anni. Vedo franare ancora una volta la nostra autostima di cittadini perché le coeve stragi di mafia mostrano che l’eterna Italia delle trame continua a prosperare nell’__________. In questo contesto di progressiva disgregazione, s’affaccia alla ribalta un nuovo partito, la Lega Lombarda - Lega Nord. Nata a metà degli anni Ottanta nella profonda provincia settentrionale, la Lega approfitta del crollo dei partiti della prima repubblica per fare nuovi proseliti con un ____________ molto chiaro, la secessione del Nord Italia __________ ed economicamente prospero dal Sud parassitario e clientelare. Considerata all’inizio come un fenomeno folcloristico e passeggero, all’inizio degli anni Novanta è già un movimento politico importante e strutturato con dei quadri professionisti e migliaia di militanti di base. Un movimento che mina alle fondamenta il __________ di patria. Altro che tricolore, nelle pizzerie padane sventola la bandiera di Alberto da Giussano. L’identità ___________ subisce un’altra formidabile botta. Ci penserà Silvio Berlusconi a unire le istanze della nuova _________ post fascista e autenticamente nazionalista, alle urgenze separatiste di Umberto Bossi.

Proveniente dalla grande palude della piccola borghesia impiegatizia, questo sconosciuto imprenditore lombardo, partendo dall’edilizia in meno di dieci anni ha creato un __________ mediatico, acquisendo i tre maggiori network televisivi privati. È furbo, scaltro, vanitoso, carismatico, senza scrupoli e privo di alcun senso civico. Ma è capace o così si definisce. Durante gli anni Ottanta crea una mitologia sulla propria ___________. Dopo tangentopoli, per salvare le sue _________ da una sacrosanta legge antitrust, si butta in politica.

Il suo partito Forza Italia ha subito un ________ clamoroso, diventando l’espressione privilegiata della nuova borghesia italiana. Io ho trent’anni mentre lui viene eletto più volte Presidente del Consiglio. Ma viene anche sconfitto. Cade e si rialza, dimostrando _________ insospettabili. Ma non cambia. Piuttosto involve, l’esperienza da premier lo trasforma in una sorta di caricatura dell’italiano medio anni Cinquanta, riportando all’estero la nostra immagine ___________, dalla quale ci eravamo da poco tempo affrancati. Lui è l’italiano degli stereotipi razzisti. Si crede simpatico, fa le corna ai colleghi stranieri, schiamazza con la regina d’Inghilterra, racconta ___________, si circonda di guitti con mandolino e si presenta con il bandana durante le visite ufficiali di altri capi di stato e confonde scientemente vita ________ e funzione pubblica. Ciò nonostante il suo successo _______ e lui, non soddisfatto, continua nel suo processo involutivo. In età senile si riscopre seduttore e grande amatore, diventando lo zimbello di tutto il mondo civilizzato. Ma non degli italiani. Gli italiani lo ______. Berlusconi è accusato da svariate procure di una serie interminabile di ______ ma gli italiani continuano ad amarlo senza ________. Anno dopo anno, l’affermarsi del potere berlusconiano contribuisce alla disgregazione culturale della nazione, il concetto stesso di _______ civile perde completamente di significato.

Le cronache recenti ci raccontano che oramai in Italia si può ______ qualsiasi cosa. Un giornalista di una televisione dei proprietà del premier può pedinare e filmare un magistrato violando la sua vita privata senza che questo gesto abbia reali ________ penali o perlomeno professionali. Non esistono più obblighi ne condivisioni di responsabilità. Le parole non hanno più _______, il buon senso è visto come sintomo di estremismo. La verità diventa accessoria o addirittura superflua.

In tempo di pace, un forte sentimento identitario nazionale nasce sempre dalla presunzione di un primato etico e morale. Ovvero, la nostra civiltà è superiore e noi siamo fieri di farne parte senza necessariamente _________ questa ricchezza con le altre nazioni. Negli ultimi dieci anni è sorto in Italia un nuovo tipo di ___________, fondato sul malcostume e sulla rivendicazione di mediocrità eretta a sistema. Nasce così _____________ degli evasori fiscali, degli approfittatori, dei conformisti, dei furbi e dei furbetti, dei nuovi mercati di schiavi e delle mamme delle veline. Un nazionalismo grossolano e volgare, senza basi culturali reali ne classi sociali di riferimento ma che sfrutta allo stesso modo, e senza alcun pudore, le tragedie umane delle nostre guerre di pace e la retorica consunta e oramai improponibile degli “italiani brava gente”.

Torniamo al bar quindi, alla domanda iniziale. Adesso ho quarant’anni, della mia vita in questo paese ho troppi _________ amari. Se guardando il tricolore dietro al bancone provo ________ non c’è nulla di cui stupirsi. La ragione è semplice: non sono _______ di essere italiano. Quando vado all’estero sono imbarazzato e rimango sulla difensiva.

In qualsiasi paese mi trovi - amministrato dalla destra o dalla sinistra, al Sud o al Nord dell’Europa - io mi __________ della nostra condizione. Con la testa bassa guardo gli sguardi dei miei interlocutori e non vedo sdegno o sorpresa. No, io vedo compassione.

Ci compatiscono di essere italiani.

domenica 10 gennaio 2010

i segni.

Voglio parlare dei segni e più precisamente dei simboli che caraterisano le città. Per esempio possiamo dire che per la gente il segno di Parigi è la "Tour Eiffel". Voglio mostrare come nell'imaginario della gente un città puo spesso si limitare a un edificio, un posto, o ancora a un grande corso. Chi va a New York va a vedere la "statue de la liberté". Chi va a Pisa si prende in foto facendo finta di sostenere la torre di pisa che sembra cadere. Chi va a Cannes si prende in fotosalendo i gradini del "palais des festivals" come si fanno le celebrità del cinema in maggio durante il celebre festival cinamatografico internazionale.

Per illustrare questo ho una storia che mi è accaduta. Quest'anno partecipo alla creazione di un suplemento regionale su "Aix-en -provence" che uscirà nel giornale "L'Express' in marzo. Si deve tra l'altro fare le foto. Guardando i giornali degli anni prima ci siamo renduto conto che ogni volta la pagina di copertura era una foto della "rotonde". Cosi per essere piu originale abbiamo deciso che quest'anno non ci sarà la "rotonde" sulla prima pagina. Ma il problema è che siamo molto controlato de "l'Express" a Parigi. Il giornalisto che ci sponsorizza ha detto che non si puo parlare di "Aix-en-provence" senza fare una foto della "rotonde". Chi abita a 'Aix-en-provence" sa che la città è un altra cosa ma a Parigi è impensabile illustrare la città senza illustrare primo di tutto la "rotonde".

In realtà faciamo tutti piu o meno questa cosa. In quanto tale turisti andiamo primo di tutto a vedere il segno architeturale o un altro segno che fa la celebrità o la riconoscenza della città nel mondo o a un livello più locale. Si andioam a vedere la vetrina della città che ci mostrano tanto bene l agenzie di viaggio. Cosi per noi occidentali la Martinica è il segno dell'isola paradisiaco con l'acqua turchese e con le spiaggie di sabbia a perdita d'occhio. Ma in realtà non è un paradiso per tutti. Il segno di un posto è talvolta come un marchio come i marchi sui vestiti che serve a vendere una destinazione.

Mélanie boisliveau.

l'impero dei segni

giovedì 24 dicembre 2009

I segni : una ricerca metafisica

All’inizio, non ho pensato al aspetto simbolico dei segni, mi apparivano sopratutto sul angolo della funzione segnaletica. Mi sono ricordato la segnaletica que si scontra ancora nelle montagne, voglio parlare degli ammassi di pietre che indicano al caminatore la buona via. Questi segni, prima l’era del GPS, eranno assolutamente indispensabili perché perdere il suo camino significava spesso l’impossibilità di tornare a casa e talvolta la morte.

Gli uomini hanno paura di essere perduti, il mondo é complesso, é la ragione perché i segni corrispondono a un bisogno proprio dell’unmanità. Il segno é l’espressione della ricerca metafisica, l'imperativo di trovare il suo camino attraverso un universo immenso e complesso. I cabalisti tentavano di decifrare la Bibbia per trovare la sua vera significazione attraverso l’interpretazione dei segni biblici. Gli astronomi fanno la stessa cosa con le stelle: vogliono trovare l’origine e l’organizzazione del mondo secondo un punto di visto scientifico. Ma questa frenesia di ricerca é motivata per una ragione più sorda : la ricerca metafisica.

I segni sono allora dei punti di riferimento indispensabili per il sviluppo del individuo. Bruno Bettelheim, psicologo dell'infanzia, esplora nel suo libro Il mondo incantato, l’importanza dei segni per i bambini. Le fiabe, secondo lui, danno ai piccoli dei modi per capire il loro mondo attraverso de i segni semplici e conformi al loro funzionamento conoscitivo.

I segni sono dunque dei punti del nostro percorso interiore e che danno indicazioni sulla nostra consapevolezza di noi e del nostro mondo. Qui vediamo l’importanza del mito per una società perché é l’ espressione della sua scoperta del mondo.

Marie Massiani

La frontiera dell' età

E sempre la stessa cosa ! Quando vado a casa di mia nonna, ritrovo un rituale immutabile. Alle 18:00, mia nonna si fissa davanti alla televizione perché non vuole mancare il suo programmo preferito. Nel questo programmo c’é nessun elemento di modernità : la decorazione é kitch, i participanti sono piutosto vecchi. I giovani preferiscono cambiare il canale. Quindi mi viene da chiedermi se mia nonna e io viviamo nel stesso mondo o in due universi che mai si incontrano.

Certamente l’età influenza sui centri di interesse e le occupazioni, dobbiamo adattarsi allo stadio della vità. Spesso apparisce un preconcetto secondo quale esistono due sfere culturale completamente diverse. C’é allora una frattura culturale che trascina stereotipi e puo’ allora sembrare difficile di fare ancora qualcosa insieme.

La frontiera tra le generazione potrebbe semplicemente vedersi attraverso l’indifferenza ma non é una frontiera pacifica perché le due partite vogliono imporre la loro visione della società e naturalmente difendere i loro interessi. Nel 1968, i giovani hanno vinto una parte importante del conservatismo dell’epoca. Ma oggi l’evoluzione demografica dell’Europa fa che gli anziani sono più numerosi e dunque hanno un peso superiore, cioè i giovani sono spossessati di una parte del loro ruolo di motore della società, Sono la categoria la più toccata per la disoccupazione e quella che é la meno rappresentata tra i dirigenti.

Queste evoluzioni del corpo sociale sono accompagnate di un riasseto della definizione all’appartenenza a un età. C’é una miscela dei codici tra le generazioni. Il fenomeno é sottile, per esempio ora estimare l’età della gente é divento difficile con la chirurgica estetica, peraltro alcune ragazze vogliono sembrare più vecchia.

L’età é dunque una frontiera sociale e culturale benché sia complessa e talvolta difficile a circoscrivere. La società puo’ manquare di coesione a causa di questa frontiera invisibile. Eppure é uno spreco perché la forza dei giovanni e l’esperienza degli anziani sono complementare. Les due sono legate e dovrebbero costituire una forma di continutà sociale.

Marie Massiani